lunedì 23 ottobre 2023

 

Siamo ancora con Antigone?

 

Ἀντιγόνη                                                                    Antigone

 

ὁμῶς ὅ γ᾽ Ἅιδης τοὺς νόμους τούτους ποθεῖ.           Però le leggi di Ade eguagliano tutti

 

Κρέων                                                                        Creonte

 

ἀλλ᾽ οὐχ ὁ χρηστὸς τῷ κακῷ λαχεῖν ἴσος.    520      La sorte dei buoni non è la stessa dei malvagi

 

Ἀντιγόνη                                                                    Antigone

 

τίς οἶδεν εἰ κάτωθεν εὐαγῆ τάδε;                              Chi sa se anche laggiù è così

 

Κρέων                                                                        Creonte

 

οὔτοι ποθ᾽ οὑχθρός, οὐδ᾽ ὅταν θάνῃ, φίλος.             Il nemico non è un amico, neppure da morto        

 

Ἀντιγόνη                                                                    Antigone

 

οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.                    Io esisto per amare, non per odiare

 

Κρέων                                                                        Creonte

 

κάτω νυν ἐλθοῦσ᾽, εἰ φιλητέον, φίλει                       Se devi amare, vattene laggiù e ama i morti:

κείνους: ἐμοῦ δὲ ζῶντος οὐκ ἄρξει γυνή.      525      fin tanto che vivo io non sarà una femmina

                                                                                   a comandare (trad. di E. Cetrangolo)

 

[Sofocle, Antigone, vv. 519-525]

 

Riprendo a pubblicare su questo blog dopo un silenzio che dura ormai da anni. Lo faccio commentando un episodio dell’Antigone  di Sofocle sul quale ho riflettuto fin dalla giovinezza. La trama della tragedia è abbastanza nota. Creonte, nuovo re di Tebe dopo che Etèocle e Polinice, i figli maschi di Edipo, si sono uccisi a vicenda in duello, ha ordinato di seppellire Etèocle che è morto per difendere la sua città e di lasciare insepolto Polinìce, che invece è venuto contro la sua città da nemico. La sorella dei due, Antigone, disobbedisce consapevolmente agli ordini del re, che è anche suo zio in quanto fratello della moglie-madre di Edipo, e seppellisce di nascosto Polinice, ma viene sorpresa da una guardia e portata alla reggia per rispondere del suo misfatto.

Creonte la incalza accusandola di aver disobbedito alle leggi della città, che la obbligavano a odiare il nemico. Antigone esplode con un verso lapidario, che secondo noi rappresenta la più alta conquista spirituale di Sofocle e dell’uomo ellenico: “Io sono nata per amare, non per odiare”. Sono parole indiscutibili, esistenzialmente ontologiche, alle quali Creonte non può rispondere nulla: con il più brutale cinismo, si limita a ordinare che Antigone scenda sottoterra ad amare i sepolti, se proprio deve amarli… e aggiunge anche parole che oggi sbrigativamente possiamo definire sessiste.

In questo mondo che sembra vivere di odio e ha sete di sangue, dove si arriva a percuotere i sanitari che ci curano, ad abusare in vario modo di chi è più debole e a fare molto altro ancora, ci è sembrato bene chiamare i viandanti della rete a riflettere su queste parole di Antigone, consapevoli che corriamo il rischio di essere quanto meno derisi: il verso di Sofocle, quando venne pronunciato per la prima volta, nel 442 a. C., suscitò sicuramente un irrefrenabile applauso, ma oggi? In quanti siamo rimasti con Antigone? E soprattutto, chi sarebbe il Creonte di oggi che ci impone di odiare?

 

Andrea Salvini

 

 

giovedì 8 settembre 2016

Su "Lo specchio di Leonardo" di Ivano Mugnaini (Eiffel edizioni, 2016)

L'idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda "Il fu Mattia Pascal" di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che, ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare, quasi all'inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all'universo pirandelliano: "E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri. Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per questo mondo malato" (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della "Coscienza" sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo approfonditi studi storici e artistici.
Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un "io narrante" che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell'«io» del grande Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che si trova nell'animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle "Memorie di Adriano" della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare dall'onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar, rafforza nel lettore l'impressione di onnipotenza dell'io narrante.
Il Leonardo di Mugnaini ci sembra ripercorrere un cammino simile, connotato da una onnipotenza intellettuale, diversa da quella di Adriano. All'inizio manipola il povero Manrico senza difficoltà, lo convince a diventare il suo doppio, anzi, il suo specchio. Segue quindi la fuga a precipizio dal proprio ruolo che ci appare come una vera e propria discesa agli inferi. Leonardo cerca anzitutto la trasgressione in una casa di prostituzione a Firenze. Poi passa una notte spensierata a Venezia con Emilia, una delle figure forse più tragiche del romanzo: Leonardo non esita ad abbandonarla, pur sapendola innocente, alla terribile giustizia veneziana[1], dando prova di un perfetto egoismo narcisistico. Il fondo viene toccato poco dopo, con la narrazione a Manrico della violenza abietta compiuta in gioventù ai danni di Jacopo Saltarelli in compagnia dei giovani‑bene di Firenze, che poi, grazie all'intervento personale del Magnifico Lorenzo, possono anche concedersi il lusso di sfuggire elegantemente ai rigori della legge. Leonardo ci appare a questo punto una figura disgustosamente impunita, ma ecco che nel suo "specchio" avviene qualcosa. Manrico comincia a rivelarsi tutt'altro che ottuso e docile: scopre di avere un'arma per ricattare in futuro proprio Leonardo, anche se, per il momento, abbiamo solo un'allusione oscura:  “Quello che mi ha detto, Maestro, è una cosa grossa. Io, lo sa bene, sono un contadino, tutto sommato, e figlio di contadini; ho fatto il copista, certo, ma resto un ignorante e so di esserlo. Però perfino io capisco che quella notte è accaduto qualcosa che non si cancella. La ringrazio per avermi fatto questa confidenza. Ma si ricordi, la prego, ora e nel futuro, una cosa: non sono stato io a chiederle di raccontarmi di quel fatto e di quel processo” (p. 47).
Leonardo non sembra percepire il cambiamento avvenuto nello "specchio", in colui che gli ha reso possibile fare ciò che ad un personaggio pubblico, prigioniero della sua dignità, non sarebbe stato possibile. Comincia ad essere assillato dal pensiero del tempo che si consuma e della morte che si avvicina e continua il suo viaggio, stavolta da solo, lasciando Manrico a vivere la sua vita di artista ricercato e osannato. Si alternano vari quadri, vari incontri, tutti contrassegnati da immagini di morte, di fallimento, di sopraffazione. Il mondo appare irredimibile, ma, ad un certo momento Leonardo sembra avere un'illuminazione: "Ho iniziato questo viaggio, la fuga da me stesso e dalla mia immagine, per ribellione, per un moto di rabbia contro il mondo e contro di me. Ora, a metà del cammino, mi trovo di fronte a un paradosso: negli occhi umili che ho incontrato, e non di rado ferito, c’è la più quieta e la più possente tra tutte le forze, la più inattesa e autentica forma di rivolta: la bontà" (p. 57).
Fin dall'inizio il Leonardo di Mugnaini viene rappresentato come un essere in profondo dissidio con se stesso; l’Autore, però non ci sembra precisare mai fino in fondo la natura di tale dissidio. All'inizio sembrano prevalere motivi psicanalitici, legati all’abbandono da parte della madre, ma poi su di essi si innestano vari altri motivi, tutti contrassegnati da una profonda e amara sfiducia verso se stessi e il mondo. La scoperta della presenza della bontà non cambia l'animo di Leonardo: egli rientra nella sua casa fiorentina per accogliere proprio sua madre, la donna che lo aveva abbandonato, che rimane con lui negli ultimi giorni di vita. Tra i due non si apre alcun confronto pacificatore e risolutivo: la madre di Leonardo muore e basta, senza che vi sia stata nessun dialogo liberatorio, nessuna confessione, nessun perdono. Leonardo tenta allora di tornare indietro, di rinunciare al suo assurdo gioco indagatorio: "Non era più tempo di pagliacciate, per rispetto della morte e della vita dovevo ritrovare la follia più autentica, la verità" (p. 63). Tenta di sbarazzarsi di Manrico riconducendolo là dove lo aveva incontrato, ma non si accorge che sta commettendo un errore. Manrico, infatti, rivela, quasi di sfuggita, ma inequivocabilmente, di essere stato una sorta di "convitato di pietra" alla mensa di Leonardo: "Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto. Con un solo gesto mi fece capire che non era con lui che mi dovevo scusare. Mi fece intendere che aveva raccolto molto, ed altrettanto teneva custodito dentro di sé, destinato a dare nuovi frutti" (p. 65). Così Leonardo scivola inconsapevolmente dall'onnipotenza all'impotenza: crede di poter tornare al suo interminabile investigare e rimuginare di studioso, ma Manrico una sera bussa alla sua porta e lì comincia la sua riscossa. Leonardo cede da codardo ad un basso ricatto e consente a Manrico di realizzare la propria autentica natura: il sosia non era solo un sosia, era qualcuno che non aveva avuto le occasioni del suo fortunato "doppio". Tutto questo ci ha fatto pensare alla scena finale del "Ritratto di Dorian Gray" di Wilde. Il ritratto uccide Dorian nel momento in cui sembra destinato alla distruzione, così come Manrico diventa artista più sublime di Leonardo nel momento in cui sembra destinato a sparire per sempre dalla scena della Storia: è lui che realizza il sorriso della "Gioconda" e sta per trionfare su Michelangelo nella decorazione del salone dei Cinquecento a Firenze con "La battaglia di Anghiari". Leonardo lo terrà ancora con sé a Roma, muto assistente del suo interminabile colloquio con se stesso, collaboratore sfruttato e mai ricompensato per la propria creatività. Cercherà ancora di liberarsene, ma il suo "doppio", dopo aver escogitato una vendetta ancora più tremenda del precedente ricatto, riuscirà a diventare definitivamente Leonardo, quello che lavorerà nei suoi ultimi anni alla corte francese. Se volessimo ancora richiamarci a Pirandello, quando si è usciti dal proprio ruolo, dalla propria "maschera", non è più possibile rientrarvi: Mattia Pascal non può risuscitare, Enrico IV non può tornare indietro nel tempo a rivivere il suo amore perduto e via dicendo. Manrico appare perfettamente consapevole di questo e lo rivela a Leonardo quando torna dalle sue montagne : "Senza mai smettere di sorridere, mi disse che aveva provato con tutte le forze ad ambientarsi di nuovo nelle sue montagne, ma non gli era stato possibile. Nulla era più lo stesso, e soprattutto lui era cambiato" (p. 67). Il genio è sconfitto, il copista povero e ignorante è il vero trionfatore: la sicumera iniziale di Leonardo è stata battuta dalla tenacia, forse un po’ furbesca, di un montanaro.
Concludiamo, per ora almeno, le nostre considerazioni, tornando a dire che queste non possono essere che provvisorie. Speriamo quindi in nuovi contributi critici su questo testo, che non può lasciare indifferenti, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione della vera natura del dissidio interiore di Leonardo, davvero sfuggente come il sorriso di Monna Lisa.

Andrea Salvini




[1] Ci se ne può fare un'idea leggendo "La mia fuga dai Piombi" di Giacomo Casanova.

lunedì 6 giugno 2016



Su "Anima semiseria" di Da Soller

La silloge di racconti è un genere forse più praticato nel passato che nel presente. Esso comunque ha sempre avuto una vita più difficile rispetto al romanzo o alla stessa raccolta poetica. Già D'Annunzio si lamentava di una certa resistenza da parte degli editori a pubblicare opere come queste. Tuttavia, la serie di racconti che contiene storie delle più varie ambientazioni e collocazioni temporali, ci pare uno degli strumenti più adatti per trattare una realtà multiforme e ferita, che si contorce e grida, e nel contempo anela alla riscossa, come quella contemporanea.
I soggetti sono davvero molto vari, anche di tipo storico. Da Soller si cimenta, infatti, a dare voce a un'ebrea deportata ad Auschwitz,  il cui ultimo pensiero è per il tedesco che l'aveva amata (Una doccia di zyklon). Prima ancora troviamo una vicenda di amore profondo e tormentato ambientata nel tardo Medioevo, fra un infallibile spadaccino e una donna che definiremmo "virile" (Violante e Aldebrando). Qui potremmo anche parlare di una voluta imitazione creativa nei confronti del Boccaccio, considerando anche il fatto che la protagonista femminile si chiama Violante, il nome di una figlia del Certaldese, ma anche il nome della protagonista di una novella (V, 7). E secondo noi qui l'Autore ha voluto ammiccare ad un modello e scoprire un poco le sue carte: come nel suo Decameròn il nostro conterraneo volle fornire un affresco vastissimo della realtà a lui contemporanea, unendo tutti i i toni e tutti i colori dell' universo umano del suo tempo, così Da Soller è andato pazientemente in cerca di quasi tutte le inquietudini, o, meglio, degli incubi che travagliano le nostre esistenze quotidiane per animarli dall'interno, per dare ad essi un corpo, evitando il rischio che si tratti dei soliti fantasmi elettronici da telegiornale che non ci lasciano dormire sonni tranquilli, ma che, al contempo, non hanno mai il tempo di prendere contorni così definiti da permetterci di riflettere. Abbiamo così la ragazza picchiata dall'ex‑compagno, vendicata da un'amica determinata e coraggiosa; il terrorista islamico che prima della strage di Charlie Hébdo si chiede per un attimo se avrà davvero le settanta urì promesse in premio a chi muore per Allah; il musicista eroinomane che muore per il suo vizio, subito dopo avere avuto la più geniale delle sue ispirazioni; il giovane che a vent'anni si trova gravemente ammalato…
La raccolta, comunque, si presenta come semiseria e veramente il tono antifrastico, che mai diventa irrisione, pervade quasi tutti i racconti. Il gioco, se così vogliamo chiamarlo, è scoperto sin dall'inizio: prima di farci entrare nel regno degli incubi, l'Autore ci propone un autoritratto adolescenziale, colto all'epoca di un sapido scherzo giocato ad un antipatico professore, con poco senso dell'umorismo e anche dotato di mediocre cultura. Il carattere semiserio è accentuato da un'ottica quasi sempre straniata in un modo imprevedibile. L'esito più riuscito di questa tecnica ci è sembrato l'ultimo racconto, il riscatto di una giocatrice patologica (ma non troppo…) narrato nientemeno che dalla slot machine con cui essa si sta rovinando, ma che, dotata di sentimenti umani, riesce a farle vincere una fortuna (Emotività digitale). Sarà appena il caso di ricordare che anche il Decameròn, che abbiamo indicato come possibile modello, è una raccolta semiseria, che contiene in sé ogni tipo di sfumatura del reale, dalla tragedia implacabile di Lisabetta da Messina alla fortuna inaspettata di Andreuccio da Perugia.
Lo stile è sostanzialmente classico, netto e geometrico, ma esso contempla anche l'aggressione ad una realtà spesso crudele e insensata mediante termini cinici e violenti, e soprattutto con l'uso frequente di un'onomatopea meccanica, barbara e cattiva, che interrompe spesso il narrato. E' come se quel linguaggio iconico fatto di immagini vorticose e suoni sgradevoli, in cui oggi noi tutti, ci piaccia o no, siamo costretti a rimanere immersi, si fosse creato uno spazio nel regno della scrittura, venendole in aiuto, anziché disgregarla. E richiamiamo anche l'attenzione anche su un altro tratto stilistico: il largo uso della focalizzazione interna. Esso ci trasfonde l'angoscia delle situazione, ci sembra di essere quell'uomo o quella donna soli con il loro dramma.
Siamo in ogni caso convinti convinti che non manchi una fiducia di fondo in questo scrittore, una certezza della perennità dei valori umani. Potremmo ricorrere a molti esempi in tal senso; ci limitiamo a sottolineare la presenza in alcuni testi di un vero protagonista della speranza: il Papa Francesco in persona, il vero eroe probabile dei nostri tempi. Un uomo anziano, ma indomito, che non sa arrendersi ai compromessi. La sua dimensione spirituale è trattata con una  leggerezza che fa pensare al disincanto, specialmente quando parla a tu per tu con Dio come faceva don Camillo, altro eroe della semplicità. Egli però arriva a sfidare la propria debolezza senile e i servizi segreti del Vaticano, che lo braccano per impedirgli di fare la carità immediata verso i deboli come quando era un prete di strada.
Concludiamo con un caldo invito alla lettura di questi racconti, sicuri che non lasceranno nessuno senza un qualcosa in più da meditare.


Andrea Salvini

domenica 13 marzo 2016

Su Paolo e Francesca in "Amalgama" di Valeria Serofilli

Pochi canti danteschi come il V dell'Inferno sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto con il dissidio fra l'abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche prima del completamento della Divina Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei "Memoriali bolognesi" risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso. Canto dell'amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione critica: amore e pietà sono due "parole‑tema" che non hanno un vero significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste l'una nell'ottica dell'altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in questa unione non troveranno mai pace. L'amor cortese che anche Dante ha sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza, fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna divina senza esprimersi contro di essa.
Valeria Serofilli ripropone in questa sua lirica-gioiello il dramma dei due cognati, con il suo stile giocoso e insieme pregnante, sempre leggero ma dall'impronta indelebile. All'inizio i due appaiono come due ragazzi birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le labbra rosse di Francesca diventano un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva.La genialità di questa lirica consiste, secondo noi, anche in questa assimilazione di Paolo e Francesca proprio con Adamo ed Eva. In una chiave modernissima i due Romagnoli diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo arturiano che stavano leggendo insieme.
Se si guarda oltre, però, notiamo che la Serofilli è riuscita a ricreare nel breve volgere di questa lirica quel senso di scissione insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto dantesco. Il senso del doppio è un filo conduttore di tutta la produzione della Serofilli, come andiamo ripetendo da anni, e forse proprio per questo la sensibilità dell'Autrice si è lasciata attrarre dai due cognati romagnoli, uniti e al contempo divisi per l'eternità. Il senso della scissione balza agli occhi in certi accostamenti semantici fra parole in posizione di rilievo: uno è "verticale" (clonati - rinati), e qui i termini sono semanticamente omogenei, ma osserviamo che li divide un abisso culturale. Poi ne abbiamo altri "orizzontali": ad esempio: unico ‑ imitativo, dove invece abbiamo una netta opposizione. La più significativa di queste opposizioni è passione ‑ condanna, sottolineata dalle allitterazioni circostanti (passione…troppa). È qui che la Serofilli non sfugge, come fa il Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e coglie, nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo! Tutto questo ci appare coerente con la vena passionale e dionisiaca che affiora in tutta la produzione serofilliana e che ci risulta evidente fin dalle sue prime raccolte. Ricordiamo appena le sue Vendemmia in "Acini d'anima" e Estasi panica in "Tela di Erato": quest'ultima, inoltre, già si abbinava al motivo della divisione insanabile e, appunto, cominciava con la parola "scissa".



Andrea Salvini

martedì 5 gennaio 2016

Solone e noi

Solon, dicesti un giorno tu… (G. Pascoli, "Solon", da Poemi conviviali)

La notizia è ormai vecchia, ma vale forse la pena richiamarla. Sembra che in un Luna Park di questa nostra Italia esista un tirassegno dove al posto dei tradizionali pupazzi si trovano le facce dei politici. Ignoriamo se si tratta di un gioco elettronico o di un baraccone vecchio stile, tre palle un soldo, decisamente più accattivante per noi… Sappiamo tutti che sta circolando un malessere apparentemente inguaribile, un'atmosfera rassegnata al peggio nei confronti della nostra classe politica. Non bastano i segni di ripresa dell'economia a far cambiare l'atteggiamento mentale di chi ha dei figli inoccupati, di chi è costretto a lavorare senza certezze per il futuro, di chi ascolta tutti i giorni il resoconto degli episodi di corruzione e di malaffare che vedono coinvolti dei politici…
Secoli fa, precisamente ventisei, nell'anno 594 a. C, gli Ateniesi affidarono il governo della loro città per un anno soltanto, ad un uomo ritenuto molto saggio, Solone. Chi ne sa qualcosa oggi? Il suo nome è usato talvolta per indicare un personaggio saccente e noioso, magari solo in disparte a sputare sentenze con una gran barba bianca che gli scende sul petto. In realtà si tratta, secondo noi, di colui che ha dato uno dei più grandi contributi della storia a comprendere le dinamiche di una comunità politica. L'elegia che riportiamo è comunemente intitolata "Il buon governo", ossia Eunomìa. Il messaggio di fondo è semplicissimo: sono i cittadini, il loro impegno a determinare il buon andamento di una comunità, di una pòlis, per dirla in greco. Quando i capi pensano solo a se stessi no sanno più contenere la tracotanza e da qui giungono i dolori per il popolo (αὐτοὶ δὲ φθείρειν μεγάλην πόλιν ἀφραδίηισιν ἀστοὶ βούλονται χρήμασι πειθόμενοι, δήμου θ' ἡγεμόνων ἄδικος νόος, οἷσιν ἑτοῖμον ὕβριος ἐκ μεγάλης ἄλγεα πολλὰ παθεῖν·οὐ γὰρ ἐπίστανται κατέχειν κόρον οὐδὲ παρούσας εὐφροσύνας κοσμεῖν δαιτὸς ἐν ἡσυχίηι). In pratica la corruzione non guarisce con le leggi: è una scelta morale.
La "stoccata" più decisa viene però successivamente, e di fronte alle parole di Solone non si vede che cosa si possa rispondere: è inutile chiudersi nel proprio privato, vale a dire non andare a votare o giocare col tirassegno di cui sopra, perché prima o poi il pubblico male entra nelle case di ciascuno e ci raggiunge anche se ci nascondiamo nella camera da letto: οὕτω δημόσιον κακὸν ἔρχεται οἴκαδ' ἑκάστωι, αὔλειοι δ' ἔτ' ἔχειν οὐκ ἐθέλουσι θύραι, ὑψηλὸν δ' ὑπὲρ ἕρκος ὑπέρθορεν, εὗρε δὲ πάντως, εἰ καί τις φεύγων ἐν μυχῶι ἦι θαλάμου.
Per favore, ognuno faccia la propria parte…

Andrea Salvini

Εὐνομία

μετέρη δ πόλις κατ μν Δις οποτ' λεται
ασαν κα μακάρων θεν φρένας θανάτων·
τοίη γρ μεγάθυμος πίσκοπος βριμοπάτρη
Παλλς θηναίη χερας περθεν χει·
ατο δ φθείρειν μεγάλην πόλιν φραδίηισιν
στο βούλονται χρήμασι πειθόμενοι,
δήμου θ' γεμόνων δικος νόος, οσιν τομον
βριος κ μεγάλης λγεα πολλ παθεν·
ο γρ πίστανται κατέχειν κόρον οδ παρούσας 
εφροσύνας κοσμεν δαιτς ν συχίηι...
πλουτέουσιν δ' δίκοις ργμασι πειθόμενοι.....
οθ' ερν κτεάνων οτε τι δημοσίων
φειδόμενοι κλέπτουσιν φαρπαγι λλοθεν λλος,
οδ φυλάσσονται σεμν Δίκης θέμεθλα,
σιγσα σύνοιδε τ γιγνόμενα πρό τ' όντα,
τι δ χρόνωι πάντως λθ' ποτεισομένη,
τοτ' δη πάσηι πόλει ρχεται λκος φυκτον,
ς δ κακν ταχέως λυθε δουλοσύνην,
στάσιν μφυλον πόλεμόν θ' εδοντ' πεγείρει,
ς πολλν ρατν λεσεν λικίην·
κ γρ δυσμενέων ταχέως πολυήρατον στυ
τρύχεται ν συνόδοις τος δικέουσι φίλους.
τατα μν ν δήμωι στρέφεται κακά· 
τν δ πενιχρν κνέονται πολλο γααν ς λλοδαπν
πραθέντες δεσμοσί τ' εικελίοισι δεθέντες....
οτω δημόσιον κακν ρχεται οκαδ' κάστωι,
αλειοι δ' τ' χειν οκ θέλουσι θύραι,
ψηλν δ' πρ ρκος πέρθορεν, ερε δ πάντως,
ε καί τις φεύγων ν μυχι ι θαλάμου.
τατα διδάξαι θυμς θηναίους με κελεύει,
ς κακ πλεστα πόλει Δυσνομίη παρέχει·
κα θαμ τος δίκοις μφιτίθησι πέδας·
τραχέα λειαίνει, παύει κόρον, βριν μαυρο,
ααίνει δ' της νθεα φυόμενα,
εθύνει δ δίκας σκολιάς, περήφανά τ' ργα
πραΰνει· παύει δ' ργα διχοστασίης,
παύει δ' ργαλέης ριδος χόλον, στι δ' π' ατς

πάντα κατ' νθρώπους ρτια κα πινυτά.

domenica 5 luglio 2015

Grecia e Occidente

Grecia e Occidente

Ci troviamo in una strana convergenza della Storia. Da una parte dobbiamo fronteggiare l'assalto del radicalismo islamico che rifiuta in blocco la civiltà occidentale. Se non andiamo errati, "boko haram", il nome dello "stato islamico" africano, vuol dire più o meno "la civiltà occidentale è peccato": dunque, secondo una certa parte del mondo islamico, tutti noi che viviamo nei cosiddetti paesi occidentali siamo solo un gigantesco peccato da cancellare con il nostro stesso sangue. Dall'altra assistiamo impotenti al "fallimento" economico e finanziario della Grecia. Solo negli ultimi tempi abbiamo sentito qualche voce che ricordava come la Grecia è proprio la culla della nostra civiltà occidentale. Qualcuno ha fatto ancora il nome di Eschilo, di Socrate, di Platone e di altri. Non sappiamo quanti siano in grado di ricordarne il messaggio in in un mondo occidentale che sembra aver fatto della banalità la propria norma di pensiero. Possiamo anche fermarci a ricordare che, ben prima dei Franchi a Poitiers, sono stati proprio i Greci di Bisanzio a fermare nel VII secolo d.C. l'avanzata degli Arabi durante un assedio che si protrasse per anni e che i Greci riuscirono a vincere grazie al "fuoco greco", la "bomba atomica" del tempo, messa a punto grazie alla propensione tutta greca alle ricerche sulla natura.
Oggi, giorno del referendum sul sì o sul no alle misure economiche imposte dalla finanza mondiale come prezzo del "salvataggio" dalla bancarotta, ci piace ricordare come la più densa ed efficace formulazione dei principi laici su cui fonda l'attuale Europa ci sia stata fornita da Tucidide, lo storico della Guerra del Peloponneso, vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. Si tratta del famoso "Epitaffio" pronunciato da Pericle in occasione della sepoltura dei caduti ateniesi nel primo anno di guerra. Essi sono morti per un altissimo ideale civile e non religioso: lo potremmo definire the athenian way of life, per parafrasare un'espressione americana divenuta celebre. Pericle stesso sarebbe morto di peste entro pochi mesi. Insieme con lui morirà anche l'Atene migliore: poi la città cadrà preda dei demagoghi e la guerra sarà perduta. Si potrebbe anche aggiungere che la Grecia sia stata allora, come oggi, la peggior nemica di se stessa. Non si finisce mai di riflettere intorno a queste parole del Pericle di Tucidide. Riportiamo solo alcuni brani, con una traduzione che non è nostra, ma ci sembra abbastanza affidabile, recuperata da un sito di internet pubblico. Per ora, nella fretta della circostanza odierna, ci limitiamo a questo: forse la correggeremo prossimamente, se avremo tempo e possibilità.

Andrea Salvini

[2.37.1] 'Χρώμεθα γὰρ πολιτείαι οὐ ζηλούσηι τοὺς τῶν πέλας νόμους, παράδειγμα δὲ μᾶλλον αὐτοὶ ὄντες τισὶν ἢ μιμούμενοι ἑτέρους. καὶ ὄνομα μὲν διὰ τὸ μὴ ἐς ὀλίγους ἀλλ' ἐς πλείονας οἰκεῖν δημοκρατία κέκληται· μέτεστι δὲ κατὰ μὲν τοὺς νόμους πρὸς τὰ ἴδια διάφορα πᾶσι τὸ ἴσον, κατὰ δὲ τὴν ἀξίωσιν, ὡς ἕκαστος ἔν τωι εὐδοκιμεῖ, οὐκ ἀπὸ μέρους τὸ πλέον ἐς τὰ κοινὰ ἢ ἀπ' ἀρετῆς προτιμᾶται, οὐδ' αὖ κατὰ πενίαν, ἔχων γέ τι ἀγαθὸν δρᾶσαι τὴν πόλιν, ἀξιώματος ἀφανείαι κεκώλυται. [2.37.2] ἐλευθέρως δὲ τά τε πρὸς τὸ κοινὸν πολιτεύομεν καὶ ἐς τὴν πρὸς ἀλλήλους τῶν καθ' ἡμέραν ἐπιτηδευμάτων ὑποψίαν, οὐ δι' ὀργῆς τὸν πέλας, εἰ καθ' ἡδονήν τι δρᾶι, ἔχοντες, οὐδὲ ἀζημίους μέν, λυπηρὰς δὲ τῆι ὄψει ἀχθηδόνας προστιθέμενοι. [2.37.3] ἀνεπαχθῶς δὲ τὰ ἴδια προσομιλοῦντες τὰ δημόσια διὰ δέος μάλιστα οὐ παρανομοῦμεν, τῶν τε αἰεὶ ἐν ἀρχῆι ὄντων ἀκροάσει καὶ τῶν νόμων, καὶ μάλιστα αὐτῶν ὅσοι τε ἐπ' ὠφελίαι τῶν ἀδικουμένων κεῖνται καὶ ὅσοι ἄγραφοι ὄντες αἰσχύνην ὁμολογουμένην φέρουσιν.
[2.38.1] 'Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῆι γνώμηι ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει. [2.38.2] ἐπεσέρχεται δὲ διὰ μέγεθος τῆς πόλεως ἐκ πάσης γῆς τὰ πάντα, καὶ ξυμβαίνει ἡμῖν μηδὲν οἰκειοτέραι τῆι ἀπολαύσει τὰ αὐτοῦ ἀγαθὰ γιγνόμενα καρποῦσθαι ἢ καὶ τὰ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων.

[XXXVII] Viviamo infatti in un sistema di governo che non invidia le leggi dei vicini, ma anzi siamo noi d’esempio per alcuni piuttosto che imitare altri. E il suo nome, a motivo dell’essere amministrata non nell’interesse dei pochi ma dei molti, è democrazia, e secondo le leggi ciascuno ha pari diritti nelle dispute private, e per quanto riguarda la considerazione dei cittadini ognuno, secondo quanto si distingue in qualche campo, nell’amministrare le faccende pubbliche non è stimato per la classe sociale da cui proviene più che per il suo valore, né d’altronde la povertà, se si è in grado di fare qualcosa di buono per la città, è d’ostacolo a causa dell’oscurità del rango. Liberamente governiamo gli interessi pubblici e anche l’ostilità reciproca nell’ambito dei contatti quotidiani, senza adirarci con il vicino se fa qualcosa per il proprio piacere, e senza infliggerci molestie certo non passibili di punizione ma comunque spiacevoli a vedersi. Mentre conviviamo in privato senza offenderci, nelle faccende pubbliche non violiamo le leggi soprattutto per timore, per obbedienza a coloro che di volta in volta reggono il potere e alle leggi, in particolare a quelle che sono stabilite per proteggere le vittime d’ingiustizia e a quelle che, pur non scritte, portano unanime disonore di fronte alla comunità.[XXXVIII] Inoltre ci procuriamo con l’ingegno il massimo sollievo dalle fatiche, stabilendo per legge agoni e sacrifici annuali, e in privato con arredi eleganti, il diletto dei quali di giorno in giorno scaccia dai cuori il dolore. Grazie all’influenza della città ogni genere di mercanzia è importata da tutto il mondo, e ne consegue che per noi i prodotti di questa terra non hanno un gusto più familiare di quelli degli altri popoli.  (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, II, 38‑39)


[2.40.1] 'Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτωι τε ἔργου μᾶλλον καιρῶι ἢ λόγου κόμπωι χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργωι αἴσχιον. [2.40.2] ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγωι πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργωι ἐλθεῖν. [2.40.3] διαφερόντως γὰρ δὴ καὶ τόδε ἔχομεν ὥστε τολμᾶν τε οἱ αὐτοὶ μάλιστα καὶ περὶ ὧν ἐπιχειρήσομεν ἐκλογίζεσθαι· ὃ τοῖς ἄλλοις ἀμαθία μὲν θράσος, λογισμὸς δὲ ὄκνον φέρει. κράτιστοι δ' ἂν τὴν ψυχὴν δικαίως κριθεῖεν οἱ τά τε δεινὰ καὶ ἡδέα σαφέστατα γιγνώσκοντες καὶ διὰ ταῦτα μὴ ἀποτρεπόμενοι ἐκ τῶν κινδύνων. [2.40.4] καὶ τὰ ἐς ἀρετὴν ἐνηντιώμεθα τοῖς πολλοῖς· οὐ γὰρ πάσχοντες εὖ, ἀλλὰ δρῶντες κτώμεθα τοὺς φίλους. βεβαιότερος δὲ ὁ δράσας τὴν χάριν ὥστε ὀφειλομένην δι' εὐνοίας ὧι δέδωκε σώιζειν· ὁ δὲ ἀντοφείλων ἀμβλύτερος, εἰδὼς οὐκ ἐς χάριν, ἀλλ' ἐς ὀφείλημα τὴν ἀρετὴν ἀποδώσων. [2.40.5] καὶ μόνοι οὐ τοῦ ξυμφέροντος μᾶλλον λογισμῶι ἢ τῆς ἐλευθερίας τῶι πιστῶι ἀδεῶς τινὰ ὠφελοῦμεν.
[2.41.1] 'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι καὶ καθ' ἕκαστον δοκεῖν ἄν μοι τὸν αὐτὸν ἄνδρα παρ' ἡμῶν ἐπὶ πλεῖστ' ἂν εἴδη καὶ μετὰ χαρίτων μάλιστ' ἂν εὐτραπέλως τὸ σῶμα αὔταρκες παρέχεσθαι. [2.41.2] καὶ ὡς οὐ λόγων ἐν τῶι παρόντι κόμπος τάδε μᾶλλον ἢ ἔργων ἐστὶν ἀλήθεια, αὐτὴ ἡ δύναμις τῆς πόλεως, ἣν ἀπὸ τῶνδε τῶν τρόπων ἐκτησάμεθα, σημαίνει. [2.41.3] μόνη γὰρ τῶν νῦν ἀκοῆς κρείσσων ἐς πεῖραν ἔρχεται, καὶ μόνη οὔτε τῶι πολεμίωι ἐπελθόντι ἀγανάκτησιν ἔχει ὑφ' οἵων κακοπαθεῖ οὔτε τῶι ὑπηκόωι κατάμεμψιν ὡς οὐχ ὑπ' ἀξίων ἄρχεται.[2.41.4] μετὰ μεγάλων δὲ σημείων καὶ οὐ δή τοι ἀμάρτυρόν γε τὴν δύναμιν παρασχόμενοι τοῖς τε νῦν καὶ τοῖς ἔπειτα θαυμασθησόμεθα, καὶ οὐδὲν προσδεόμενοι οὔτε Ὁμήρου ἐπαινέτου οὔτε ὅστις ἔπεσι μὲν τὸ αὐτίκα τέρψει, τῶν δ' ἔργων τὴν ὑπόνοιαν ἡ ἀλήθεια βλάψει, ἀλλὰ πᾶσαν μὲν θάλασσαν καὶ γῆν ἐσβατὸν τῆι ἡμετέραι τόλμηι καταναγκάσαντες γενέσθαι, πανταχοῦ δὲ μνημεῖα κακῶν τε κἀγαθῶν ἀίδια ξυγκατοικίσαντες. [2.41.5] περὶ τοιαύτης οὖν πόλεως οἵδε τε γενναίως δικαιοῦντες μὴ ἀφαιρεθῆναι αὐτὴν μαχόμενοι ἐτελεύτησαν, καὶ τῶν λειπομένων πάντα τινὰ εἰκὸς ἐθέλειν ὑπὲρ αὐτῆς κάμνειν.

 [XL] “Amiamo infatti il bello con moderazione e il sapere senza debolezza; ci serviamo della ricchezza più come occasione per agire che come vanto nei discorsi, e ammettere la povertà non è vergogna per nessuno, ma non tentare di porvi rimedio coi fatti lo è assai di più. E negli stessi cittadini troviamo la cura per i propri affari privati insieme con quelli pubblici e la capacità di non disconoscere gli interessi della città pur rivolgendosi ciascuno alle proprie imprese: infatti siamo i soli a considerare colui che non si cura affatto di queste cose non una persona tranquilla, ma un incapace; a nostra volta giudichiamo e riflettiamo con attenzione sulle situazioni, ritenendo che i ragionamenti non siano dannosi per l’azione, bensì lo sia il non prepararsi in anticipo con il ragionamento prima di intraprendere nei fatti quanto è necessario. Ci distinguiamo certo anche in questo, che sempre noi sappiamo essere audaci al massimo grado e nel contempo fare i nostri calcoli su quanto ci accingiamo a fare: laddove agli altri l’ignoranza porta coraggio, il ragionamento esitazione. E giustamente si debbono giudicare i più forti nell’animo coloro che sanno chiaramente cos’è più terribile e cos’è dolce e non per questo sono distolti dai pericoli. E anche nel valore ci contrapponiamo ai più: ci conquistiamo alleati non ricevendo benefici, bensì procurandone. Infatti chi fa favori resta un alleato più sicuro, in modo da conservare un debito di gratitudine da parte di colui che li ha ricevuti attraverso la benevolenza; mentre chi ricambia un favore è meno saldo, sapendo che sta ripagando il valore non per ottenere gratitudine ma per estinguere un debito. E noi soltanto portiamo aiuto a ciascuno in considerazione non del calcolo dell’utile più che della fiducia nella libertà. [XLI] Insomma io affermo che tutta la città è la scuola dell’Ellade, e che mi pare che ciascun cittadino presso di voi rivolga la propria individualità alle forme più diverse e con somma grazia e versatilità. E che queste parole non siano l’ornamento improvvisato di un discorso piuttosto che la realtà dei fatti lo insegna la potenza stessa della città, che abbiamo conquistato grazie a queste usanze. Lei sola tra le contemporanee supera alla prova dei fatti la propria fama, e sola non dà al nemico che la assale motivo di sdegno per la sconfitta subita né al suddito motivo di rimprovero per non essere dominato da uomini degni. E avendo mostrato la nostra potenza con grandi esempi e non senza testimonianze saremo ammirati dai contemporanei come dai posteri, senza aver bisogno né delle lodi di un Omero né di qualcuno che con le parole offra un diletto immediato, mentre la verità dei fatti va a deludere le aspettative, bensì avendo costretto il mare intero e la terra ad aprirsi al nostro passo audace, costruendo ovunque monumenti delle nostre sconfitte e delle nostre vittorie. Per una tale città dunque costoro sono caduti combattendo nobilmente, ritenendo ingiusto esserne privati, e conviene che ciascuno dei sopravvissuti sia pronto a soccombere per lei. (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, II,40-41)




venerdì 20 marzo 2015

Su Ulisse di Valeria Serofilli

Chi potrebbe contare le rivisitazioni, le reinterpretazioni della figura di Ulisse? Eroe sempre avido di nuove esperienze e nel contempo stanco e desideroso di tornare dalla sua amata moglie. Ne esiste, come sappiamo, anche una negativa di Saba, che si propone come un Ulisse che si rifiuta di rientrare in porto, preferendo continuare all'infinito la sua avventura conoscitiva.
Scegliamo quindi di parlare dei primi brani di questo nuovo lavoro di Valeria Serofilli, quelli più propriamente "odissiaci". Si tratta di cinque prose liriche che non ci pare sbagliato definire perle di poesia, tanto per far riferimento ad un gioiello tipicamente marino. Sì, perché non vi è dubbio che il mare, o, per meglio dire, il motivo dell'acqua faccia da sfondo comune ad esse. Quando commentavamo la raccolta "Chiedo i cerchi", cercavamo di mettere in luce l'importanza decisiva del tema dell'acqua in quella raccolta. L'avevamo vista come grande metafora dell'essere, con il quale l'Autrice tentava un dialogo tenace e inesausto. Ora qui torna l'acqua in chiave, appunto, odissiaca, come veicolo di ricerca, ma anche come deposito di angoscia, elemento infido su cui ci si può perdere, se non si ha la volontà tenace di tornare, come appunto possiede Ulisse.
La dimensione epico‑eroica è lontana: abbiamo storie di piccole odissee dei giorni nostri, odissee che vive soprattutto il cuore femminile nella trepidazione della precarietà di un legame affettivo (Il sub) o di una gestazione che potrebbe sfociare nell'infelicità di una vita (Sirena). Un'altro dei temi dominanti della raccolta ci pare proprio questo senso profondo dell'incertezza che domina la vita umana. Come l'Autrice stessa ha sempre evidenziato, l'inizio della sua produzione risale ad un giorno di eclissi, ossia al dodici agosto del 1999. Sarà una coincidenza che anche oggi, 20 marzo 2015, giorno in cui viene presentato questo libro, è stato un giorno di eclissi? Comunque, la situazione di eclissi evoca la massima incertezza, l'assoluta mancanza di confini precisi, il senso di un doppio inscindibile. Lo scorgevamo quando scrivevamo sulla prima raccolta, gli "Acini d'anima", e questo senso di doppio che non si può separare aleggia sempre nelle altre raccolte, costante metafora delle ambiguità dell'esistenza.
Non sarà certo un caso che qua e là, e soprattutto alla fine di "Sirena", si affacci l'invocazione alla "piccola anima errabonda": essa è, come , noto, la traduzione del celebre incipit dell'imperatore Adriano, animula vagula blandula. Secondo la tradizione egli scrisse questa breve lirica in punto di morte, al momento, cioè, in cui si compiono tutte le scommesse della vita. Quale migliore simbolo dell'incertezza?

Animula vagula blandula
hospes comesque corporis:
quo nunc abibis? In loca
pallidula, rigida, nudula
nec, ut soles, dabis iocos!

Publius Aelius Adrianus



Andrea Salvini